Succede sempre così: quando sei un rapper che ha alle spalle
un’ottima carriera non solista e magari ti sei fatto pure notare in positivo
con qualche EP o Mixtape, all’annuncio di un primo disco solista si crea
talmente tanto hype, suscitando aspettative talmente alte, quasi al limite
dell’inverosimile, tanto che è facile non mantenerle appieno oppure, nel
peggiore dei casi, deluderle totalmente. Un discorso analogo l’abbiamo trattato
su queste pagine durante la recensione di “Musica Commerciale” di Jake La Furia
e credo possiamo fare un parallelismo con l’artista americano di cui andremo a
parlare ora: mi riferisco a Pusha T. Tuttavia, fortunatamente, in questo caso
non possiamo parlare di delusione, almeno secondo me.
Sono passati diversi anni dai tempi delle hit assieme al fratello (No) Malice nel duo Clipse e di acqua sotto i ponti ne è passata; per dirne una, la più importante ed evidente, il nostro Pusha entra nel roster della G.O.O.D. Music, ovvero, per quei pochi che non sapessero, l’etichetta fondata da quell’umile e sobrio ometto che è Kanye West. Ovviamente un avvenimento del genere non può far altro che influenzare pesantemente lo stile musicale del rapper in questione.
“My Name Is My Name” è il titolo, un chiaro riferimento alla serie televisiva The Wire la quale è incentrata sul crimine legato al traffico di droga, un mood quindi dove Pusha T si rispecchia perfettamente, visti i suoi trascorsi. Difatti le tematiche dei suoi pezzi, si sa, ruotano quasi interamente al suo passato da grosso spacciatore di coca e tutto ciò che ne deriva e questo disco non fa differenza; ma in questo album c’è una marcia in più che si rivela decisiva.
Partendo dall’aspetto puramente stilistico, il signor Terrence Thornton, bè, è un “animale” (non so proprio in che altro modo definirlo): riesce a imprimere una forte energia e attitudine in ogni pezzo, sia grazie alle liriche aggressive spesso infarcite di similitudini e metafore col mondo dello spaccio di cocaina, sia grazie (soprattutto) al suo timbro vocale e alla sua voce, che riesce a far risaltare ogni beat, da quello più minimale a quello più “piatto” che, però, può rivelarsi un’arma a doppio taglio se, come avviene in quest’album, finisce per oscurare gli altri ospiti presenti nelle tracce.
Difatti i featuring possono essere considerati, in gran parte, uno dei punti dolenti di “My Name Is My Name”, ma va fatto un discorso separato tra i rappers e i cantanti: per quanto riguarda i rappers l’unico feat degno di nota che riesce a spiccare veramente è quello del nuovo talento Kendrick Lamar, il quale ultimamente non sbaglia una strofa e tiene perfettamente testa al padrone di casa in una delle tracce migliori (anzi, forse La Migliore) ovvero “Nosetalgia”, impreziosita da un gran bel beat di Nottz (sempre affiancato da Kanye, che supervisiona tutto il disco, influenzando parecchio l’atmosfera sonora). Non si può dire lo stesso per i restanti rappers: se gente come Rick Ross e Young Jeezy, pur non facendo un brutto lavoro, non riescono a essere abbastanza incisivi, gente come Big Sean e 2Chainz sono del tutto fuori luogo tanto da definire incomprensibile la loro presenza, se non per ragioni di attirare più fans tramite nomi in voga nel mainstream. Impalpabile proprio invece è il vecchio socio Ab-Liva. Contrariamente a ogni aspettativa riescono a essere più determinanti i featuring dei cantanti, i quali nella maggior parte dei casi impreziosiscono certi pezzi: per dire, credo che questo sia l’unico disco dove riesco ad apprezzare particolarmente un ritornello di Chris Brown (su beat di Swizz Beatz per giunta), stessa cosa per Future, cantante di solito in grado di usare l’autotune in modo così spropositato e irritante da farmi rimpiangere T-Pain, che si comportano bene rispettivamente in “Sweet Serenade” e in “Pain”. Il ritornello migliore dell’album però secondo me lo canta Kevin Cossom in No Regrets; buona prova pure quella di The Dream, Kelly Rowland invece poteva non esserci e a nessuno sarebbe cambiato nulla.
Parlando invece del tappeto sonoro, come già accennato, è affidato a diversi produttori quali, giusto per citare quelli che hanno svolto il ruolo migliore, Pharrell (ovviamente), Hudson Mohawke, Don Cannon, Nottz, No I.D., la maggior parte di essi affiancata dall’onnipresente Mr. West. Tutte sonorità fatte per piacere a un vasto pubblico (ricordiamo che alla fine l’obiettivo di Pusha, come per la totalità dei rapper del mainstream americano, è il classico “Make Money”), ma senza sfociare nella solita “trappata” tanto cara agli artisti d’oltreoceano nell’ultimo periodo.
In conclusione, possiamo dire che Pusha T non ha tirato fuori la bomba dell’anno che molti aspettavano; ha fatto un disco mainstream (ricordiamolo) che può suonare bene anche nei club, ma specifico che non si tratta di brutta musica o di roba uguale a quella di altri rapper; ci troviamo di fronte a un disco di buona musica (pur con qualche piccolo calo) di un valido artista con grosse capacità. Consiglio l’ascolto se ogni tanto volete mettere le orecchie su un prodotto più leggero: vi farà prendere bene e, perché no, anche immedesimarvi in certi pezzi, pure se non avete mai visto una striscia di coca in vita vostra.
VOTO: 7,5/10
Francesco “Gobba” Gobbato
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